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Bambini vittime della guerra

Ricordiamo i bambini che il mondo ha dimenticato

Negli anni di volontariato abbiamo aiutato tantissime comunità che nel mondo sono perseguitate per la loro identità etnica e il loro credo religioso. Essendo diretti testimoni di orrori che coinvolgono purtroppo tanti minori, abbiamo deciso di lasciare nei parchi delle nostre città dei peluche con una storia: ognuno di loro rappresenta un bambino coinvolto, e spesso deceduto, nelle guerre in Siria, Palestina, Kosovo, Donbass e Armenia.

Scuole e ospedali distrutti, terrorismo, omicidi di massa che non si conoscono e non raggiungono i media principali, ma non per questo possono essere dimenticati. Il dolore di questi bambini non è un semplice effetto collaterale delle guerre, e noi non possiamo accettare di esserne complici senza agire.

Guarda quelle foto, leggi quelle storie: e se fosse tuo figlio? Sappiamo che sono immagini forti, ma come reagiresti se domani toccasse a te e alla tua famiglia? Non si può rimanere indifferenti, bisogna far sentire la nostra voce in questo assordante silenzio.

Le storie dei bambini vittime delle guerre

Attenzione: immagini forti

Sono Yousef, ho 14 anni. Vi racconto la mia storia da un letto d’ospedale. Mio padre è morto. Sono ricoverato nell’ospedale da campo di Khan Younis, ma il mio calvario insieme alla mia famiglia è iniziato a Gaza, quella che un tempo era casa nostra, dove i soldati israeliani ci hanno preso e ci hanno messo in una buca. Pensavo che ci avrebbero seppelliti vivi. Fermate l’odio, fermate la guerra, siamo solo dei bambini!

Sono Ahmad Al-Najjar, ho 18 mesi. Sono il membro più giovane della mia famiglia e sono stato sempre coccolato dai miei genitori e fratelli. Io e la mia famiglia siamo stati sfollati più volte finché non abbiamo raggiunto Rafah, quello che doveva essere “un luogo sicuro”. Gli aerei dell’occupazione israeliana hanno bombardato la nostra tenda. Il mio corpo è stato trovato orribilmente mutilato e decapitato: questa è la raccapricciante realtà dell’attacco israeliano del 26 maggio, appoggiato dagli Stati Uniti, al campo profughi di Rafah. Gli oltre 15.000 bambini palestinesi massacrati a Gaza non sono solo numeri. Mamme e papà d’Occidente, non dimenticatevi di noi.

Sono Sabreen, sono appena nata e sono già sola al mondo. Sono nata a Gaza nella notte fra sabato 20 e domenica 21 aprile, pochi secondi dopo la morte di mia mamma. Eravamo a Rafah: la casa della nostra famiglia è stata colpita da un bombardamento israeliano. Sono morti mio papà, la mia sorellina di quattro anni e mia mamma. I medici si sono però accorti che mia madre era incinta di 30 settimane. Nasco di poco più di sette mesi, tramite un cesareo d’urgenza all’ospedale kuwaitiano di Rafah. Fatico a respirare. Vengo ricoverata nel reparto di terapia intensiva: sono in una incubatrice. Sarei dovuta essere nel grembo di mia mamma in questo momento, ma questo diritto non mi è stato concesso.

Sono Shaymaa, ho 8 anni. Sono a casa e sto giocando con i miei fratelli, quando inizia il bombardamento. Mio padre è fuori a preparare il fuoco perché mia madre deve cucinare. All’improvviso la casa accanto alla nostra viene bombardata e un pezzo di metallo mi amputa di netto il braccio. Mio padre ferma un auto e mi porta in ospedale. Sulla strada per l’ospedale c’è un altro bombardamento, e qui perdo una gamba. Vorrei riavere il mio braccio, la mia mano e la mia gamba per giocare ancora con i miei amici.

Sono Ghazal, ho 4 anni. Vivo nella Striscia di Gaza. Il 12 ottobre scorso casa mia è stata colpita dalle bombe. Disorientata e scioccata dall’evento, inizio a sentire un fortissimo dolore alla gamba. A causa della gravità del disastro e per le difficili condizioni di sicurezza, l’ambulanza non riesce a raggiungermi. Un dottore che viveva nel mio quartiere prova a operarmi con mezzi di fortuna per cercare di fermare l’emorragia. Come accade spesso nella Striscia di Gaza in questo conflitto, il dottore ha dovuto operarmi senza anestesia a causa della mancanza di forniture mediche. Purtroppo, l’infezione ha già fatto il suo corso. Dopo alcuni giorni, una volta in grado di raggiungere l’ospedale Nasser a Khan Younis, i medici devono compiere una scelta terribile: amputarmi la gamba.

Sono Razan, ho 11 anni. si trovava con la sua famiglia nella casa dello zio quando questa è stata bombardata nelle prime settimane di guerra. Ha perso quasi tutti i membri della sua famiglia. La madre, il padre, il fratello e le due sorelle sono stati uccisi. Anche la gamba di Razan ha dovuto essere amputata. Dopo l’intervento, la ferita si è infettata. Razan è ora accudita dagli zii, tutti sfollati a Rafah.

Sono Kristina, ho 23 anni e una figlia di dieci mesi di nome Kira. Il 27 luglio 2014, nella routine della passeggiata al parco di Gorlovka dove andavo spesso con mia figlia, siamo state colpite all’improvviso da un bombardamento di artiglieria dell’esercito ucraino. La nostra fotografia, una giovane donna assassinata con in braccio la mia bambina, ha colpito profondamente l’opinione pubblica tanto da rinominarla “la Madonna di Gorlovka”.

Sono Kirill, ho 13 anni. È una calda estate del 2014, quando le forze armate ucraine mettono a fuoco le aree popolate da civili per stabilire il pieno controllo sul ribelle Donbass. Nel villaggio di Butkevich, l’esercito ucraino spara contro il villaggio dalle sue posizioni con l’artiglieria. Una madre e due bambini stanno attraversando la strada quando cominciamo a sentire il fischiare delle mine. Uno di quei bambini sono io: mi getto su mia sorella Tanya e le salvo la vita, facendole da scudo. Vengo trafitto dai frammenti delle bombe e muoio sul colpo.

Sono Dmitrij, ho 16 anni. Mi stavo prendendo cura dei bambini più piccoli nel cortile. Chiamato da un amichetto, ci avventuriamo insieme in un vecchio pollaio. Non vedendomi tornare, la mia famiglia dà l’allarme. Solo il quarto giorno i militari trovano il mio corpo sotto le macerie. Il pollaio era stato minato dai militari ucraini, che in precedenza avevano occupato l’edificio per i propri bisogni. Nel momento in cui tiriamo la maniglia della porta, l’edificio esplode: erano state appositamente posizionate per ucciderci.

Sono Egor, ho 1 anno. Il 24 giugno 2014 vengo ucciso da una scheggia di un’esplosione di una granata nel cortile di casa mia durante una passeggiata. Durante quei giorni, le stesse autorità ucraine che mi hanno ucciso avevano dichiarato una tregua.

Sono Alina, ho 13 anni. Il 18 agosto 2022, io e mio nonno andiamo a prendere dell’acqua al punto di raccolta, non essendoci sul territorio acqua potabile disponibile. Al ritorno, finiamo sotto il fuoco dell’artiglieria regalata agli ucraini dalla NATO. Il proiettile calibro 155 mi arriva nel petto quasi in silenzio. I sabotatori ucraini avevano installato un “localizzatore” sul serbatoio dell’acqua, atto a prendere di mira la popolazione assetata.

Sono Orest, ho 16 anni. Con mia sorella e mia madre, passiamo con la macchina davanti all’edificio in cui sono di stanza i soldati ucraini che hanno da poco occupato il villaggio. Il cecchino posizionato sul tetto, mi spara. Un colpo preciso mi colpisce alla testa. Per ottenere il permesso di seppellirmi nel cimitero di Granitnoe, mio papà ha dovuto pregare in ginocchio il comandante ucraino. Dopo avermi seppellito, la mia famiglia ha lasciato il nostro paese natale, sapendo che non vi avrebbe mai più potuto fare ritorno.

Sono Daria, ho 8 anni. Nonostante fosse diventato pericoloso vivere nel distretto Petrovsky, la mia famiglia non voleva lasciare la nostra casa. Il tragico giorno della nostra morte non sembrava diverso dai precedenti. Alle due del mattino tutti dormivamo profondamente. La bomba colpisce la stanza dei miei genitori e scoppia un incendio. Mio fratello porta rapidamente fuori nostra nonna insanguinata e torna nella casa in fiamme per salvare i nostri genitori e me. Trova i nostri genitori morti sul colpo. Ilya cerca a quel punto di trovarmi tra le rovine fumose della casa in fiamme. Quando però anche la sua testa e i suoi vestiti prendono fuoco, uno dei vicini lo trascina fuori.

Sono Danil, ho 15 anni. Nonostante all’inizio dei bombardamenti abbia avuto l’occasione di trasferirmi, decido di rimanere a Khartsyzsk: credevo che si sarebbe tutto risolto a breve. Muoio insieme ad altri ragazzi, dilaniato da un bombardamento vicino a una sorgente, dove mi ero recato con gli altri ragazzi per prendere l’acqua. Tante le ferite subite, mia mamma non ha potuto riconoscermi dal viso, ma solo dai pochi brandelli di vestiti rimasti.

Sono Laila, ho 18 mesi. Sono una dei tanti bambini che vive nei campi profughi in Siria. Vivo con la mia famiglia in un campo al nord della città di Afrin. Purtroppo qui l’inverno è molto duro, e sono morta assiderata prima di riuscire ad arrivare al centro medico. Ad oggi 2,5 milioni di bambini vivono nei campi profughi in Siria in condizioni pericolose e disumane.

Sono Mehrez, e sono uno delle 190 persone trucidate dall’ISIS la notte del 4 agosto 2013 nelle campagne di Latakia, in Siria. Nella prima notte dopo il Ramadan, i battaglioni che avevano già annunciato l’operazione, sono entrati nei nostri villaggi, uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e anziani e almeno 18 bambini. I corpi sono stati ritrovati martoriati, spesso con mani e piedi legati. Oltre 200 persone sono state fatte prigioniere e utilizzate come ostaggi. Poiché i ribelli hanno gettato molto corpi nelle fosse comuni, il numero dei morti è sicuramente più alto.

Sono Saja,ho 12 anni. Ho affrontato un dolore tremendo, dopo aver perso la sua gamba e aver visto morire quattro dei suoi migliori amici. Prima della guerra ero libera di uscire, la mia vita era bellissima. Il mio desiderio per il futuro della Siria è che tutto torni com’era. Spero di poter tornar a uscire, giocare ed essere al sicuro.

Sono Lina, ho 13 anni. Sono riuscita a fuggire all’assedio nel goutha orientale in Siria ed oggi vivo a Idlib. I miei genitori sono stati uccisi quando la nostra casa è stata colpita da una bomba, e sinceramente ho sperato di morire anch’io, ma Dio aveva altri piani per me: devo testimoniare l’orrore di questa guerra.

 

Sono Omran, ho 5 anni. Vi parlo seduto su un ambulanza, dopo essere stato estratto vivo dalle macerie di un palazzo colpito da un bombardamento ad Aleppo. Mio fratello è morto. Non dimenticate i miei occhi vitrei, il mio volto sporco di sangue, ricoperto dalla testa ai piedi di polvere.

Sono Ahmad, ho 4 anni. Sono stato gravemente ferito durante l’operazione Aleppo in Siria, i dottori sono riusciti a a salvarmi la vita ma purtroppo ho perso la vista.

Sono Victoria, ho 8 anni. Sono stata uccisa dai bombardamenti azeri mentre scappavo verso il rifugio antiaereo con i miei genitori.

Siamo Nver e Michael, due fratelli di 8 e 10 anni. Siamo stati uccisi dai bombardamenti azeri mentre andavano a scuola.

Sono Vagharshak, ho 12 anni. Sono stato ucciso dalle bombe mentre andavo a scuola. 

Per 9 mesi noi e altre 120.000 persone siamo rimasti bloccati nella nostra regione, senza cibo, acqua e medicine.

Il corridoio di Lachin, unico passaggio tra la regione armena dell’Artsakh e il resto del Paese è stato bloccato, impedendo a molti di noi il ricongiungimento con le famiglie di origine.

Gli asili e le scuole sono stati chiusi per mancanza di cibo e acqua. Dopo il sabotaggio da parte degli azeri della fornitura elettrica, ci è stato negato durante il rigido inverno anche la possibilità di riscaldarci.

Sono Milica, ho 3 anni. Vivo a Batajnica, un quartiere periferico di Belgrado. La NATO ha ripetutamente bombardato con bombe a grappolo il nostro quartiere e io sono morta sul colpo. Se da un lato nessun organo di informazione occidentale ha menzionato la mia morte, dall’altro sono stata canonicizzata come neomartire dalla Chiesa Ortodossa Serba.

Sono Miloš, ho 3 anni. Abito a Cernica, in un piccolo quartiere in cui noi serbi siamo ghettizzati. Mentre sto andando con mio zio e mio nonno al mercato, gli albanesi ci sparano, uccidendoci tutti. Nessun colpevole è stato mai individuato per la nostra morte.

Sono Mihajlo, ho 12 anni. Sono uno studente di quinta elementare della scuola Desanka Maksimović a Kosovska Kamenica. Sono stato picchiato da un gruppo di albanesi. Il motivo? Faccio parte della minoranza serba che ancora vive in Kosovo e Metochia.

Sono un ragazzino serbo, ho 13 anni. A Gojublje, mentre stavo giocando con il pallone fuori di casa, sono stato aggredito da un gruppo di albanesi più grandi di me che si sono accorti del crocifisso che porto al collo. Me l’hanno strappato e distrutto.

Abbiamo organizzato un flashmob nei parco giochi di alcune città italiane per ricordare ai genitori queste storie. Leggi di più sull’iniziativa qui.

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