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La resistenza armena

Pubblicato da: UVNS 0 Commenti

Da oltre un mese in Armenia si svolgono  manifestazioni quotidiane contro il governo guidato da Nikol Pashinyan. La politica remissiva del primo ministro armeno dopo l’occupazione azera dell’Artsakh – già oggetto di violente proteste a seguito della tregua del 9 novembre 2020 – è il bersaglio del Movimento di Resistenza che, principalmente nella Capitale Yerevan, sta organizzando senza sosta cortei e presidi anti-governativi. Caratterizzate da grande partecipazione popolare e sostenute dai parlamentari di opposizione, le proteste sono regolarmente controllate dalla polizia e dai berretti rossi (forze speciali), più volte protagonisti di violenze sui manifestanti inermi (anche giovanissimi e anziani). In queste settimane si sono contate centinaia di feriti e arrestati, tra i quali anche membri del parlamento. Le tensioni si sono acuite nelle manifestazioni di venerdì scorso, quando il partito di maggioranza ha disertato una sessione parlamentare straordinaria proprio sulla questione Artsakh; ne sono seguiti scontri e contusi tra dimostranti e polizia, la quale ha usato granate stordenti di avvertimento causando feriti nelle sue stesse fila. Sullo sfondo delle proteste, l’incontro del 22 maggio a Bruxelles tra il presidente del Consiglio europeo Michel, Pashinyan e il presidente azero Aliyev sul ripristino delle comunicazioni, l’avvio del processo di delimitazione e demarcazione dei confini e l’avvio dei negoziati per la firma di un trattato bilaterale Armenia-Azerbaigian. Un incontro criticato dal segretario di Stato dell’Artsakh, Artak Beglaryan, che ha riaffermato il diritto all’autodeterminazione come chiave per la sicurezza nel Nagorno Karabakh. Beglaryan ha anche dichiarato che l’Unione europea non dovrebbe essere impegnata nella risoluzione del conflitto, riconoscendo il Gruppo OSCE di Minsk (co-presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti) quale organo principale per le trattative. Sempre Beglaryan ha sottolineato l’importanza delle forze di pace russe attualmente presenti in Artsakh auspicando la loro permanenza a tempo indeterminato, essendo il conflitto non risolto e l’Azerbaigian non disposto a negoziare sui tre principi proposti dai mediatori internazionali, ovvero l’integrità territoriale, il diritto delle nazioni all’autodeterminazione e il non uso della forza. 

Dopo il cessate il fuoco del 9 novembre 2020, come informato dalla Procura locale, le forze armate dell’Azerbaigian hanno commesso un totale di 89 crimini di guerra contro la popolazione dell’Artsakh. 16 persone sono state uccise (3 erano civili), di 101 è stato tentato l’omicidio (44 erano civili), 43 sono state ferite e altre 43 aggredite fisicamente. Dal novembre 2020, le forze azere aprono regolarmente il fuoco da posizioni situate vicino ai villaggi delle regioni di Stepanakert, Askeran, Martuni e Shushi nel tentativo di intimidire la popolazione civile, mantenendola nella paura costante. Il soldato di leva armeno Davit Vardanyan è l’ultima vittima di questo conflitto, colpito dalle armi da fuoco azere al confine sud-orientale lo scorso 28 maggio. 

Nelle ultime ore, il ministero della Salute dell’Artsakh ha inoltre informato che 122 strutture sanitarie sono rimaste nei territori occupati dall’Azerbaigian – tra cui 4 unità mediche regionali, 1 ospedale distrettuale, 9 ambulatori medici rurali e 108 reparti di maternità – e quasi tutti gli istituti medici danneggiati durante la guerra. L’aggressione azera non risparmia i luoghi religiosi, molti dei quali già colpiti dal conflitto: di recente, il Primate della diocesi dell’Artsakh, Vescovo Vrtanes Abrahamyan, ha dichiarato che l’Azerbaigian ha intenzione di rimuovere il clero armeno dal monastero di Dadivank per stabilirvi la diocesi russa di Baku. Un altro passo per cancellare l’identità armena dell’Artsakh, dove un popolo sta lottando per la sua vita contro le ambizioni azere, tra il silenzio e l’indifferenza internazionali.

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