L’Artsakh tra blocco, rapimenti e fame
Bloccati da quasi nove mesi dall’Azerbaigian, i residenti dell’Artsakh vivono una crisi umanitaria che peggiora di giorno in giorno. Era fine aprile quando le forze armate azere installarono un checkpoint illegale all’ingresso del corridoio di Lachin (andando a sostituire il presidio di presunti ambientalisti che, nei pressi di Shushi, durava dal 12 dicembre scorso). È da metà giugno che, dallo stesso checkpoint, è negato – perfino alla Croce Rossa – il transito di aiuti umanitari per la popolazione dell’Artsakh,
A fine luglio, un convoglio umanitario armeno di 20 camion è arrivato a Kornidzor (a ridosso del checkpoint): dopo oltre un mese, i mezzi carichi di cibo e altri beni di prima necessità sono ancora fermi lì, tenuti a distanza dalle forze azere. Secondo Baku, da quel posto di blocco non deve passare nulla, neppure farina o dolci per bambini.
Aiuti umanitari che nei giorni scorsi sono arrivati a Kornidzor anche dalla Francia: un convoglio di 10 camion, guidato dal sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, che – nonostante il divieto d’accesso degli azeri – ha portato quantomeno il contesto sotto i riflettori internazionali.
A far luce sulla grave crisi umanitaria in Artsakh è stato anche l’ex procuratore capo (e fondatore) della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo. L’intervento di Ocampo ha avuto un certo rilievo, in quanto ha parlato a più riprese del blocco del corridoio di Lachin quale atto di “genocidio” contro gli armeni.
Una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’Artsakh ha poi avuto luogo a metà agosto, riscontrando posizioni coraggiose sulla questione (in primis quella della Francia) ed altre immancabilmente imbarazzanti (Azerbaigian e Turchia), pur non trovando ancora una risoluzione ufficiale.
Nel mezzo dell’ultimo mese, eventi tragici causati dal blocco hanno avuto luogo nella piccola Repubblica del Caucaso meridionale: si è registrata la prima morte per fame (un uomo di 40 anni), seguita da un aborto spontaneo di una donna che, per mancanza di carburante, non è stata raggiunta da un’ambulanza. Ma non solo: al famigerato checkpoint azero, sono stati rapiti un giovane e un uomo di 68 anni – tutt’ora detenuto in un luogo segreto perché considerato ingiustamente responsabile di crimini nella prima guerra del Nagorno Karabakh (1988-1994). E ancora: l’arresto di tre giovani calciatori armeni ritenuti responsabili di aver profanato la bandiera azera e il diritto negato ai famigliari di una ragazzina originaria dell’Artsakh, scomparsa in un’incidente in Armenia, di far tornare il suo corpo nella terra d’origine.
Le estenuanti condizioni di vita in Artsakh non risparmiano nessuno: dagli agricoltori che saltuariamente vengono presi di mira dai cecchini azeri al pane razionato che provoca code lunghissime ai distributori, con donne, anziani e bambini spesso soggetti a svenimenti. Gli scaffali dei supermercati vuoti, le macchine e gli autobus fermi lungo le strade per mancanza di carburante, le madri costrette a fare chilometri a piedi per accompagnare i figli ai centri educativi, uomini che, come fossero altri tempi, si muovono coi cavalli…
Quanto potrà durare tutto questo? Come confrontarsi con un regime che nega l’accesso di beni umanitari bloccando un territorio che vuole suo con la forza, andando in barba alla Dichiarazione tripartita del 2020 (che prevedeva il libero accesso di merci e persone nel corridoio di Lachin) e alle risoluzioni della Corte internazionale di giustizia? L’Azerbaigian, che di recente ha tentato di inviare in Artsakh carichi di farina attraverso una rotta alternativa (da Aghdam, città sotto loro controllo), ha trovato la risposta degli armeni: il dignitoso rifiuto. In un blocco a due sensi che sta assumendo contorni grotteschi (ma tragici). Ma davvero affamare un popolo ricattandolo è sanzionabile solo con le parole?
Gli appelli internazionali, almeno, si stanno moltiplicando diventando più vigorosi. La Francia (dove la diaspora armena, come negli Stati Uniti, è molto numerosa) è a capo dell’azione diplomatica per lo sblocco del corridoio di Lachin: dall’invio di aiuti umanitari alla presa di posizione del ministro degli Esteri, Catherine Colonna. Ma anche le recenti parole dell’omologo tedesco Annalena Baerbock e del principe Michele del Liechtenstein – che ha espresso la disponibilità a guidare un gruppo umanitario aereo verso l’Artsakh – fanno ben sperare. Compreso l’interesse sulla questione mostrato dalla stampa mainstream internazionale. Forse qualcosa si sta svegliando. Ma non si può più aspettare. Il popolo dell’Artsakh non può sopportare oltre questo scempio verso la sua civiltà. E, parlando di civiltà, anche l’Italia può fare la sua parte. Deve fare la sua parte.